L’inquietudine dello spazio

 

 

 

Museo della Permanente, Milano.
4/22 ottobre 2016.

A cura di Cristina Sissa
con testi di Chiara Gatti e Alberto Pellegatta.

Giancarlo Ossola ha attraversato da protagonista il secondo Novecento, è stato un pittore colto, amico di Vittorio Sereni e presentato, oltre che dai maggiori critici italiani (da Tassi a Arcangeli, da De Micheli a Giovanni Testori ecc.), anche da Giovanni Raboni. La specificità del suo lavoro, anticipatore di linguaggi e tematiche poi riprese da artisti più giovani che ancora oggi avvertono l’attualità della sua proposta, sta altresì nell’apparato teoretico di saggi e articoli che fanno di lui un personaggio unico, attivo come curatore di mostre che hanno animato l’«età dell’oro» della cultura milanese, negli anni sessanta e settanta.

La mostra antologica presenta una selezione di circa 50 opere, oli su tela, che ripercorrono l’evoluzione del suo pensiero, i suoi temi e il suo inconfondibile stile. Pittore milanesissimo, ha sempre lavorato nel silenzio notturno di via Pastrengo, applicando per prime le categorie prospettiche, creando una sintassi dell’opera, fatta di margini dissolti nel gesto istintivo. La sua è stata una ricerca costante sulle possibilità stesse del mezzo pittorico, come indagine sui significati intravisti nelle cose, sui sentimenti appena percepibili. Gli oggetti e i paesaggi compongono la scena, ma è lo sguardo ciò che il pittore ci propone, non le cose. Si parte allora dagli esordi, dalla violenza deformante della guerra e dall’esplorazione di un mondo sommerso che, disceso nelle profondità della mente, riaffiora rifatto. Una luna sconsacrata illumina le cose, sulle scrivanie si depositano «gli strumenti umani» e le sedie conservano residui di chi se ne è già andato. I pavimenti sprofondano in altre storie, in paesaggi sognati tra corpuscoli di luce, briciole, polveri, descritte come presenze lampeggianti. E i panorami che si allargano improvvisi sulle pareti, come muffe e macchie enigmatiche, contengono fascinazioni fiabesche. I laboratori, le fabbriche, le officine non sono le tristi retoriche dell’abbandono, dell’archeologia, ma si riaccendono di colori. I lavori più recenti ci depistano, nascondendo dietro alla quiescenza il delirio che disorienta, il thriller. Così Ossola ha descritto l’ansia e l’opacità contemporanea con grande efficacia. Se negli anni settanta (opere come le Cosmogonie) ha privilegiato il disegno come strumento ideale, anche nel successivo lavoro a olio la mano sembra guidata da una musica interna – si tratta, non a caso, di Ritmi vegetali. Con la deflagrazione del nucleo, gli oggetti cominciano poi a vagare nel vuoto, proiettati da una forza eruttiva, magmatica, seguendo un movimento a cono, centrifugo, che dal centro si disperde verso le periferie della scena. Sono gli anni delle Memorie epiche e della riscoperta degli interni. Non può sfuggire l’incontro dell’artista con le incisioni di Seghers, con quei paesaggi fatti di materia cerebrale, così misteriosi, pieni di rami contorti, stratificati. La vita emerge da un indistinto nucleo primordiale. Le molecole viaggiano nello spazio e lo configurano. Ossola stesso parla di Oggetti intermedi, non descritti, cifre di una scrittura nervosa, impellente. Quando gli oggetti troveranno il loro posto, definendo chiaramente gli spazi, le stanze, gli interni, le piazze, il profilo della Milano industriale delle periferie, allora saremo nell’ultima fase, forse più nota, della sua produzione. Non solo di interni, ma strade che si aprono; la città ci si offre col suo orizzonte bassissimo. Le tematiche sono luoghi: «Queste “periferie della civiltà” sono terreno riservato all’arte, alla poesia, all’immaginazione, all’evocazione… sono serbatoi di una realtà declassata e di un’umanità latente. Gli spazi marginali si sottraggono al controllo umano. Luoghi dove l’uomo ha cessato di operare, involucri d’industrie, terre di nessuno, fasce intermedie, angoli inutilizzabili».