ANTOLOGIA CRITICA > Giovanni Testori

1983

Quando, invece di pensare e realizzare mostre pubbliche sotto il segno, spesso equivoco, delle etichette, per dir così, “situazionali”, le quali risultan buone per contenere un’idea e, insieme, il suo esatto contrario, ci si metterà a studiarle e a prepararle con metri più umili e rispettosi, quelli, ad esempio, che si cavano dagli spazi geografici e morali oltre che da quelli cronologici, ci s’avvedrà che, in Lombardia, dopo la generazione che ebbe il suo gran pilastro post-romantico e neo-romanico in Morlotti, almeno due ne sono apparse che han fatto, ciascuna per un tempo non breve, storia comune: la prima, quella che potremmo chiamare dei “desperados di corso Garibaldi”, poi variamente divisisi, e, tuttavia, trattenenti pur sempre un riconoscibile fondo o accordo comune; la seconda, seguita a quella, che potremmo chiamare dei “carpentieri della difficoltà”, della quale ha fatto parte e, forse, risulta oggi la punta più avanzata, inquieta e indagante, Giancarlo Ossola. Si tratta, pur sapendo quanto sia difficile procedere per sintesi in una materia ancora “in fieri”, di pittori il cui sguardo sembra non poter scendere oltre la riva lombarda del Po; per puntar, invece e sempre, verso le prealpi e dar così la mano a quella zona che tra Como, Varese e Novara, potremmo definire, anche per ciò che concerne l’arte antica, “ticinese”. L’aria, meteorologica, ma altresì morale, che vi si respira ha qualcosa d’un “cantone”; un’aria resistenziale, e fortemente, nei confronti, ad esempio, di tutte le seduzioni non interne alla scrittura pittorica dell’anima e della psiche; una scrittura che tende, inesorabilmente, al monocromo come alla sua linfa, al suo cuore e alla sua tomba. Allarma e benedice questo “cantone”, per stare ai nostri giorni, l’esperienza solitaria, scontrosa e dura di Franco Francese, o, per scendere più giù, la cinerea tenebrosità dei “pestanti”, i grandi maestri del ‘600 lombardo; nonché lo stato di consapevole, contrito “ritardo”, che fu dei susseguenti tenebristi; Magnasco, in testa; il Magnasco, per l’appunto, milanese; faro più buio del buio che avrebbe voluto rischiare e che, in effetti, rischiarò; ma per mostrarne più atrocemente gli abissi; e, in essi gli oscuri viluppi, l’ansie irrisolvibili della storia, almeno per chi la storia non intenda ridurre a una conta ideologico – materialistica di dati e di fatti; per chi, ecco, non intenda declassarla a “excursus” sociale; così spesso oppositivo nei confronti della bellissima parola latina da cui, pure, deriva; che è “societas”.
Ed eccoci, senza aver troppo forzato, “in medias res”. La mostra che, di Giancarlo Ossola, la galleria 32 ha aperto in questi giorni, “penitenziali” per loro stessa natura, ci presenta il giovane maestro milanese, milanese, sì, ma nel cui nome non è difficile intendere quanto prema la denominazione d’una delle più dure, tenaci e solitarie valli che legano Piemonte e Lombardia (v’ebbe a lasciare alcuni capi d’opera, scabri, eroici e funesti, il grandissimo Tanzio); ci presenta, dicevo, il giovane maestro in un fase in cui sembra riassumere le lunghe, difficili esperienze degli anni che ormai sente respirargli, come jene, alle spalle; e in cui individua, con un affondo struggente e ansioso, quello che ci sembra il “luogo deputato” alla sua pittura. Tale luogo è, nulla più, ma anche nulla meno, che il “lazzaretto”; d’ieri e d’oggi. C’è aria, murmure, colore, spazio e dolore di penitenza, in questi desolati “interni – esterni” di Ossola. Quasi che dai secoli delle famose, laceranti pesti carliane e federiciane, dai secoli cioè di quello che il Borromeo, nel suo “Memoriale ai milanesi”, aveva chiamato “esterminio”, il tempo sia mutato solo per cambiare (ma cambiare, poi, di molto?) l’apparenze di quei luoghi di segregazione, d’agonia e di morte. Negli “interni – esterni” di Ossola, che kafkianamente s’infilano l’uno nell’altro, in una sinistra, grigia, talvolta sulfurea prospettiva senza esiti e fine, l’uomo è scomparso; gli appestati, o sono stati, ben più atrocemente di quel che si faceva ai tempi di Frà Cristoforo, tutti inceneriti e, dunque, ridotti a polvere; o, uno a uno, han lasciato il terribile immondezzaio dell’habitat umano, sapendo cosa mai li avrebbe attesi. E, tuttavia, dove se ne son volati? Difficile pensare che ali o anche, delle ali, poveri moncherini sian spuntati sulle loro magre spalle; forse, vergognosi di sé, ridotti all’inedia, se ne stanno, tutti, accalcati nell’ultima stanza; quella che Ossola non ci mostra mai; e sperano che, un giorno o l’altro, il pittore tiri fuori qualcuno di loro e, con la stessa pietà con cui ora dipinge le stanze di ciò che fu il loro luogo di lavoro e di vita, si disponga a ritrarne la devastata, interrogante, smangiata effigie.
Certo è difficile non sentire e non vedere l’orme di tutti i viventi che, inceneriti o ammassati altrove come cose ed oggetti, hanno strusciato su questi muri grigi, gialli, bavosi, unti (talvolta anche troppo, forse perché la materia sembra domandare al pittore un’ulteriore rastremazione e bruciatura); su questi muri dai quali anche gli oggetti son caduti, tutti, giù a terra; pavimento o cortile, che importa? La terra qui, in questi quadri, è prossimissima a quella dei cimiteri; e così la sterminata, vuota misura delle prospettive; come se seguissimo file interminabili di colombari, sulle cui lastre i nomi dei defunti siano stati cancellati. La società rivuole la fossa comune? Potrebbe essere un’umana, possibile soluzione; non risultasse che tale fossa, oggi, piuttosto che volersi per antifoscoliani principi, sembra generata dalle cupe necessità implicite in quel non-sentimento che domina e devasta i nostri tempi: l’indifferenza. Forse è proprio per contrastare lei, l’indifferenza, per vincerla; o per opporle gli ultimi, possibili barbagli che, nei suoi straordinari “interni-esterni”, Ossola ingorga pennelli e materia, e così accende, di tanto in tanto, qualche luce; strappi tremanti e sofferti, come battiti dall’umano cuore; resti, forse, di lampade funerarie o di funerari lumini nei quali, lì per lì, siamo indotti a pensare che si fondano anche gli ultimi, poveri fuochi fatui dell’uomo. Giacometti e Varlin che, in una virata di secoli, sembrano aver permesso a Ossola la rilettura “in moderno” delle tenebre magnaschesche, non solo sarebbero sodali con questo loro discendente, ma stan lì, con la loro origine e il loro lavoro bondasco, a testimoniare, dioscuri inulti ed enormi, quanto sia legittimo, per pittori come Ossola, parlare d’una certa zona geografica; la quale s’è fatta e continua a farsi zona altamente, duramente, imperdonabilmente poetica e morale; anzi, per esser più lucidi e precisi, imperdonabilmente penitenziale.

(“Corriere della Sera”, 2 novembre 1983) 

Torna indietro