ANTOLOGIA CRITICA > Luigi Carluccio

1978

Assistiamo alla maturazione delle capacità espressive di un artista profondamente legato ai valori specifici, tradizionali del dipingere e ai modi più semplici di guardare alla natura, per farne l’oggetto e il soggetto delle proprie opere. Queste si alternano sulle pareti della galleria secondo la distinzione individuata dallo stesso artista, tra il paesaggio come luogo privilegiato dell’esperienza “naturale”, e l’interno, la stanza, come luogo adatto a covare un’esperienza “psichica”, più intima.
Per il fatto stesso che ogni cosa di un interno, ogni presenza, ogni fantasma – una ciotola sul tavolo, una macchia sul muro di fondo, uno straccio per terra – diventa un polo di attrazione quasi ipnotica, l’interno si oppone alla spinta a una fuga verso i confini del mondo, rappresentata dal paesaggio. Eppure la sensazione più persistente, davanti a queste splendide opere recenti di Ossola, è che esse sviluppino tutte dentro una gabbia che contiene grandi volte celesti, filari d’alberi, suburbi informi di grandi città, oppure tracce di pavimenti, di soffitti, di tavoli ingombri, di muri senza aperture. Cioè, dentro una gabbia che nei paesaggi è trasparente, gonfia d’aria e di fili d’oro, d’argento, di piombo. Negli interni invece sembra deserta attorno a pochi oggetti: ombre d’oggetti rivelati da fiochi fasci di luce, come su un palcoscenico dopo che il sipario è calato.

(“Panorama”, 11 aprile 1978)

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