1987
Poche cose mi dispiacciono quanto la confusione, i resti, gli avanzi, il ritratto del disordine e dello sfacelo. Eppure il cinema ama tutto questo, la letteratura non ne fa mistero e, in definitiva, la vita di tutti i giorni, lo spaccato di un minuto secondo ci offre resti, avanzi, disordine e tragedie sulle quali camminano, corrono, o fuggono, vite umane o animali altrettanto sconcertanti.
Di questa tragica proliferazione, di questa ambasciata del caos che è il disastro, è protagonista assoluto un pittore italiano, Giancarlo Ossola.
Perché egli attraversa quel disordine, quegli avanzi, con luci dorate le quali sembrano avere dentro o intorno a loro musiche gloriose, altisonanti come quelle di Wagner. A me sembra infatti che tra quelle macerie si aggiri una composizione musicale di tipo nordico o perlomeno germanico, nibelungico, l’alba che attende la fine di una lotta, la polvere d’oro che si è posata sul disastro, il concerto che ha rotto i timpani a noi spettatori quando, lavati e stirati, siamo in un bel teatro dove, per l’appunto, una grande orchestra ha appena finito di spaventarci perché resti bene impressa nella nostra carotide mentale l’eco della paura, l’orrore e lo sgomento della distruzione. Anche fonica. Questo è, alla luce dei fatti, cioè dei suoi quadri, l’oriente, la mistica, persino la religione e quindi l’autorità che hanno le tele di Giancarlo Ossola, da me ammirate e di fronte alle quali riesco a ricordare, a balbettare: noi siamo fatti anche così. Siamo lavati e stirati, abbiamo mangiato e dormito, abbiamo avuto braccia femminili intorno a noi; abbiamo acceso e spento le luci mille volte, ma siamo fatti anche così.
(“Il Giornale”, Milano 17 maggio 1987)